Traffico illecito di rifiuti: un serio problema per la nostra provincia

Prima o poi doveva accadere. Ma ci è voluto un incendio fortuito all’interno dell’azienda di
stoccaggio rifiuti “Trailer spa” di Rezzato per portare alla luce un traffico illecito di rifiuti solidi
urbani non regolarmente trattati, provenienti dal Lazio e dalla Campania e destinati all’inceneritore
di Brescia. Sorvoliamo sul coinvolgimento e sulle complicità di una serie di società e intermediari
che consentivano tale illecito; le cronache bresciane di un paio di settimane fa ne danno un
resoconto dettagliato. Per quanto riguarda la A2A che gestisce l’inceneritore di Brescia, si parla di
coinvolgimento di soggetti interni e non dell’azienda in quanto tale, ma visto il livello operativo del
traffico di rifiuti, non si tratta sicuramente di “soggetti interni” di basso livello. Staremo a vedere.
Per adesso ci interessa l’aspetto ambientale e i problemi sanitari legati alle emissioni di fumi dagli
inceneritori. Tra parentesi all’inceneritore di Brescia si smaltiscono ogni anno 685mila tonn. di
rifiuti a norma di cui 220mila tonn. sono rifiuti solidi urbani, in parte provenienti dal Lazio e dalla
Campania in quanto il nostro inceneritore è sovradimensionato rispetto ai bisogni locali. Ora se già
questi rifiuti regolari creano allarme e perplessità per il loro impatto ambientale, si può immaginare
quale inquinamento avrebbero provocato le 100.000 tonn. scoperte nell’impianto di stoccaggio di
Rezzato; e poi: da quanto tempo andava avanti questo traffico illecito?
Per cogliere la dimensione delle problematiche connesse all’attività del nostro inceneritore,
occorrono alcune notazioni tecnico-scientifiche che non possiamo ignorare se vogliamo essere parte
attiva nella politica del territorio.
Dunque negli inceneritori possono essere trattati solo i rifiuti combustibili, quindi anche quelli
definiti RSU (rifiuti solidi urbani) se previamente separati dai materiali riciclabili e opportunamente
trattati, per poi ricavare energia sottoforma di calore da utilizzare in quanto tale o convertibile in
elettricità mediante il sistema turbina – alternatore. Si ottiene così il duplice vantaggio di eliminare
una parte dei rifiuti prodotti ottenendo nel contempo energia utile; da qui la logica denominazione
di termovalorizzatori.
Purtroppo a questa pratica virtuosa in sé si affiancano effetti non desiderati come l’emissione sotto
forma di fumi e gas di sostanze fortemente inquinanti e dannose per la salute umana. Le sostanze a
cui facciamo riferimento si dividono in tre categorie: diossine, metalli pesanti e polveri fini.
Ovviamente ogni impianto è dotato di opportuni sistemi di filtri per abbattere l’emissione in
atmosfera di inquinanti fino a valori di soglia ritenuti di sicurezza. Dico “ritenuti” perché in questo
campo non si sono raggiunte certezze sia nelle metodiche di rilevamento sia nei valori da ritenere
sicuri e ininfluenti per la salute. Per esempio il rilevamento va fatto avendo a riferimento una certa
quantità di aria o al suolo? Si considerano oppure no gli effetti dell’interazione chimica tra tali
sostanze e altri agenti chimici presenti nell’ambiente? E che effetti si hanno a determinate
condizioni climatiche? Per tutti questi ragionevoli dubbi, che rimangono a tutt’oggi irrisolti, si
raccomanda da sempre di non costruire termovalorizzatori a ridosso di aree urbane e in aree poco
ventilate. E’ evidente che il termovalorizzatore di Brescia non ottempera a nessuna di queste due
condizioni basilari anche se, per ironia della sorte, in passato ha ottenuto il titolo di miglior
termovalorizzatore del mondo. Se poi a questi problemi si aggiungono le azioni fraudolenti e
criminali venute alla luce e frutto del connubio affaristico politico che alligna anche a Brescia, si
comprende che abbiamo a che fare con una autentica bomba ambientale di facile innesco.
Ritornando all’inquinamento proveniente dai termovalorizzatori la classe di sostanze più pericolosa
sono le nanopolveri. Vi risparmio alcuni dati tecnico-scientifici ma per darvi l’idea bisogna sapere
che si intendono per nano polveri particelle di dimensioni tra 0,2 e 100 nanometri e un nanometro
equivale ad un milionesimo di millimetro (cercate di fare mente locale). Siamo a livello di
dimensioni molecolari o sub molecolari che non si individuano con i comuni strumenti di
rilevamento utilizzati e per le quali, allo stato attuale, non vi sono filtri di trattenimento: i migliori
sono efficaci solo per particelle al di sopra di 200 nanometri. Esse rimangono sospese nell’aria e si
sommano, in un ambiente urbano, a quelle nanoparticelle prodotte dalle altre combustioni quali
quelle delle auto e dall’usura di ruote e asfalto o provenienti da particolari processi di lavorazioni
abrasive, anche la semplice combustione di legna produce nanoparticelle. Il loro collegamento con
l’insorgenza di patologie respiratorie e varie neoplasie è ovviamente connesso alle loro dimensioni

e quindi alla loro penetrazione attraverso gi alveoli polmonari se non l’epidermide stessa; senza
trascurare l’effetto sinergico con altre sostanze inquinanti. Le domeniche senza auto sono quindi
tentativi patetici di porre rimedio ad una entità chimico-fisica sicuramente pericolosa ma
inafferrabile e incontrollabile. In sostanza è lo stesso ambiente urbano moderno ad essere patologico
e fonte di inquinamento e ogni ulteriore causa inquinante non si somma alle altre ma tende a
moltiplicare gli effetti indesiderati. Se la tecnica produttivistica capitalistica si muove secondo la
logica di uno scientismo deterministico di causa effetto, la natura, al contrario, è edificato su
principì olistici e organicistici che attivano forme di retroazione complesse e non sempre prevedibili
e desiderabili.
Questa ultima riflessione ci introduce alla nostra visione del problema e alle soluzioni complessive
che si inscrivono nella nostra alternativa politica, seppure, per ora, solo teorica.
A breve termine una soluzione risolutiva alle polveri e alle ceneri potrebbe essere la loro
vetrificazione e la loro riutilizzazione come materia “prima seconda”. Si tratta però di una
tecnologia costosa ma in rapida evoluzione.
Concentriamoci allora sul problema rifiuti. Fermo restando la necessità della raccolta differenziata e
le pratiche di riciclaggio la termovalorizzazione può essere solo l’ultima pratica di smaltimento e
non certo come quella risolutiva e primaria, come follemente è stato concepito al sud da una classe
politica, a dir poco, inetta.
Ma anche la raccolta differenziata può essere eseguita con vari criteri. Noi suggeriamo la modalità
attuata a Londra e in alcuni centri del Veneto; cioè la semplice separazione tra l’organico e tutto il
resto che verrebbe poi selezionato e avviato allo smaltimento, in appositi impianti, da personale
specializzato. Le ricadute positive in termini di efficienza dello smaltimento, economicità del
servizio e nuovi posti di lavoro sarebbero certe.
Ma noi vogliamo fare un ulteriore passo e affrontare decisamente il problema rifiuti che si sono
moltiplicati con l’espansione della grande distribuzione, specie degli alimentari, e la crescita
esponenziale degli imballaggi.
Anche la follia globalista del commercio internazionale di beni di consumo, altrimenti producibili a
corto raggio, contribuisce ad un aumento degli imballaggi oltre che dello spreco di risorse
energetiche per i lunghi trasporti e dell’inquinamento da carburanti.
Noi teorizziamo allora una triplice riqualificazione dei consumi: qualitativa, ambientale e simbolica;
qualitativa in quanto il corto raggio riduce l’apporto di additivi e conservanti; ambientale, in
riferimento alla drastica riduzione degli imballaggi e dei contenitori, simbolica in quanto la
produzione locale di beni conduce al recupero delle valenze culturali specifiche contro la
massificazione planetaria dei consumi.
Come ho cercato di dimostrare in queste brevi note se il sistema globale capitalistico, con la sua
logica di crescita esponenziale e di profitto è nefasto per l’ambiente, la natura e le risorse; un
pensiero rivoluzionario antisistema non può che essere coerente con una politica ambientale
altrettanto rivoluzionaria.
E se non lo facciamo noi, chi se no?

prof. Umberto Malafronte

 

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