Articolo dell’amico Francesco Carlesi, Presidente dell’associazione “Stato e Partecipazione” pubblicato da “La voce del patriota” il cui titolo originario è “Timken, Gnk, Giannetti. La scomparsa dell’Italia industriale e le trappole dell’Ue e della transizione ecologica” che qui riportiamo integralmente:
Il caos sociale è sempre più una dura realtà dei nostri tempi. L’azienda Timken, dove vengono prodotti cuscinetti a rulli conici a fila singola per il mercato fuoristrada e ferroviario, ha annunciato poche settimane fa la chiusura del sito di Villa Carcina (Brescia), aperto nel 1978 come Gnutti e acquisito dalla multinazionale americana nel 1996. Con una fredda comunicazione ai sindacati, nel giro mezz’ora si è scelto di cambiare la vita di 106 dipendenti, delle loro famiglie e dell’interno tessuto sociale del territorio. I lavoratori sono partiti con un presidio a oltranza per impedire che vengano portati via i macchinari, sperando in qualche via d’uscita positiva, in un contesto sempre più difficile.
Questa incredibile decisione fa seguito ad altre misure simili intraprese da multinazionali (come Whirlpool) e fondi speculativi che operano sul nostro territorio. Il 9 luglio la Gnk di Campi Bisenzio, che produceva componenti auto vicino Firenze, ha messo alla porta 422 dipendenti inviando per posta elettronica una lettera di licenziamento. Come riporta Francesco Bonazzi su Panorama, qualche mese prima i manager dell’azienda, proprietà del fondo speculativo inglese Melrose, avevano venduto le azioni dell’impresa intascando 22 milioni di sterline. Non troppo dissimile il dramma che hanno vissuto i 152 dipendenti della Giannetti Ruote, licenziati sempre per posta elettronica alla fine del turno di notte, dai proprietari di un fondo senza volto tedesco (Quantum Capital Partner). Quanto sta avvenendo chiama in causa l’Unione Europea, la nostra inetta classe dirigente e infine la necessità di impostare una politica sociale e industriale di lungo periodo per opporsi a un declino che sembra inevitabile.
Il ministro Roberto Cingolani ha detto che il Piano di ripresa e la “transizione ecologica” rischiano di essere un «bagno di sangue», e quanto appena descritto ne è la plastica conferma. Innanzitutto, come ha rilevato Carlo Cambi, «il Green Deal ci leva di tasca, tra rincari di energia, tasse occulte, case da adeguare e automobili da buttare, circa mille euro l’anno per i prossimi sette anni. Possiamo evitarlo? No, perché il “messianico” Recovery Fund è agganciato al Green Deal». La corsa all’elettrico porterà soldi alle multinazionali americane e cinesi che la gestiscono in prima fila, con l’Italia che rischierà di perdere ulteriormente occasioni di innovazione e sviluppo. Timken, Gnk e Giannetti sono i primi agnelli sacrificali di una strategia suicida per l’Italia, che mette a repentaglio anche eccellenze quali Ferrari e Maserati (la cosiddetta Motor Valley vale all’incirca 66.000 posti di lavoro). Bisogna poi prendere in considerazione lo sbilanciamento salariale e sociale che l’Unione Europea ha favorito: tante aziende site in Italia hanno delocalizzato e delocalizzeranno in Ungheria, Bulgaria, Romania, per approfittare di costi più bassi e diritti del lavoro favorevoli. La stessa Gnk che ha appena colpito a morte centinaia di italiani, farà largo affidamento sui suoi impianti in Slovenia, paese che ha incassato 4,1 miliardi di fondi strutturali dall’Ue (con l’Italia che è diventata seconda Nazione verso cui esportare), mentre Roma resta contributore netto dell’Ue, con benefici sempre più difficili da trovare.
Molti si erano illusi che la nomina di Mario Draghi avrebbe potuto favorire un nuovo protagonismo della penisola sulla scena internazionale, quando il presidente del Consiglio appare invece sempre più un “amministratore” di fiducia di Bruxelles. I cinque consulenti da lui nominati per monitorare il PNRR lasciano poco spazio ai dubbi, essendo tutti di formazione liberista: Carlo Cambini, Riccardo Puglisi (che ha recentemente vinto l’oro del servilismo twittando: »Primo oro italiano della storia nei 100 metri, con Draghi premier? Coincidenze, non credo»), il bocconiano Marco Percoco e Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni. Senza contare l’incredibile ritorno sulla scena di Elsa Fornero, nominata consulente nel Consiglio d’indirizzo per la politica economica, istituito dal sottosegretario con delega alla Programmazione, Bruno Tabacci, il quale, senza vergogna alcuna, ha trovato il tempo di offrire una consulenza milionaria ad Arcuri e una poltrona in Leonardo per il figlio.
Questi grotteschi passaggi sembrano quasi annunciare il completamento della “scomparsa dell’Italia industriale” cominciata negli anni ’90. Proprio Draghi, in qualità di direttore generale del Tesoro, fu tra i protagonisti delle svendite e delle privatizzazioni dell’Iri e del patrimonio pubblico italiano, che aveva consentito alla Nazione, pur tra mille errori e corruzioni, di competere a livello internazionale e di potenziare alcuni settori strategici, da quello bancario fino alla chimica e le telecomunicazioni. Aver distrutto tutto questo ci impedisce oggi di “cavalcare” adeguatamente le sfide del nostro tempo e di impostare politiche industriali di lungo respiro che sole danno futuro e forma alle entità statuali. Gnk che invia un avvocato in teleconferenza al tavolo con il Ministero dello Sviluppo Economico è simbolo di una politica che ha perso qualsiasi autorevolezza, dignità e “orizzonte di senso”. Difficile pensare a un Fanfani o un Craxi che avrebbero accettato una cosa del genere.
L’Italia si è troppo spesso cullata nel “vincolo esterno”, che sollevava le classi dirigenti dalle responsabilità di scelte dolorose. Indebolire lo Stato e la politica negli ultimi 30 anni ci ha portato in una situazione di crisi senza precedenti, nonostante diverse eccellenze industriali continuino a scrivere pagine importanti. La soluzione non potrà che essere il ritorno di una strategia di lungo periodo, che faccia leva sull’orgoglio patriottico e sulla ricostruzione del tessuto sociale interno. Le innovazioni e gli accordi con le nazioni europee, spesso necessari, devono essere però valutati pragmaticamente e sulla base dell’interesse nazionale.
Il ritorno dell’Industria nazionale, d’altronde, è uno dei cavalli di battaglia persino di Biden, come ha scritto Gian Piero Joime (https://istitutostatoepartecipazione.it/la-grande-transizione-e-il-ritorno-dellindustria-nazionale/) riportando il documento americano firmato dai dipartimenti Commercio, Energia, Difesa e Salute del febbraio scorso, in cui si legge: «dobbiamo premere per una serie di misure – tasse, tutele del lavoro, standard ambientali – che aiutino a plasmare la globalizzazione per garantire che funzioni per gli americani come lavoratori e come famiglie, non semplicemente come consumatori».
In primis, dunque, le filiere produttive nazionali e i distretti industriali andranno potenziati e resi protagonisti dei cambiamenti in atto, sul piano della produzione e non solo del consumo. Il ritorno delle aziende in patria, studiato attraverso un elaborato piano fiscale dal Centro Studi “Machiavelli” è un altro passaggio obbligato. Lo Stato italiano dovrà tornare a fare formazione sull’esempio dei migliori momenti dell’Iri, mettendo inoltre “a sistema” tutte le aziende a partecipazione pubblica sulla scia delle indicazioni di Filippo Burla (Progetto di una nuova Iri: Industria Nazionale, in L’Italia del Futuro, Eclettica, 2020). Le competenze e l’economia reale andranno coinvolte nella politica, ripensando e valorizzando il Cnel in opposizione alle task force e alle cabine di regia di questi tempi, lontane da qualsiasi trasparenza. In ultimo, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, processo di maturazione dei singoli e valorizzazione delle competenze e dei territori, si fa sempre più necessaria, tanto per la crescita e il coinvolgimento dei lavoratori nell’innovazione, quanto per evitare le vergognose vicende che hanno caratterizzato Timken e Gnk. E per combattere la finanziarizzazione dell’economia che ha inciso drammaticamente nell’essenza delle imprese, dei territori e dell’uomo.
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