Aziende agricole bresciane: ecco dove finiscono gli immigrati. Ci siamo stati.

Abbiamo passato una settimana a lavorare tra i vigneti della Franciacorta, ecco le nostre impressioni: il primo impatto non è stato sicuramente promettente, i responsabili hanno infatti convocato qualche centinaio di persone in un oratorio dove ci hanno dato le prime delucidazioni per le modalità in cui si svolgerà la vendemmia.
I gruppi di lavoratori erano suddivisi in nazionalità, ciascuna con un proprio capo o interlocutore che faceva da tramite tra l’azienda e i futuri dipendenti.
Le condizioni sono chiare: 5 €/h e contratto a chiamata.
Questo significa che in base alle loro necessità ti possono chiamare o meno, per guadagnare una media in giornata di 40/50 euro lavorando dalle 8 alle 10 ore sotto il sole d’agosto, i 35 gradi canonici e molta afa.
Dopo qualche firma per il contratto e le varie liberatorie, inizia la coda per la visita medica, semplice e sbrigativa: le solite domande di rito e la prova della pressione.

Iniziamo a lavorare due giorni dopo, di lunedì: ci si trova nella sede dell’azienda, non ci stupiamo di vedere che quasi tutti i nostri colleghi sono stranieri, soprattutto indiani e pakistani.
Il capo ci carica su un furgoncino e arriviamo presso i vigneti designati. Sul luogo ci incontriamo con un’altra squdriglia di indiani, arrivati autonomamente.
Naturalmente non riceviamo alcun tipo di DPI e le attrezzature utilizzate sono abbastanza vecchie e logore, tant’è vero che necessitano di qualche piccolo intervento di manutenzione prima di poter essere usate.
Passiamo le prime giornate a zappare tra i filari, il lavoro è duro, il sole è cocente e la sensazione di essere sfruttati è alta, ci ronzola nella testa la domanda se sia giusto essere pagati così poco per un lavoro così faticoso, soprattutto in un settore, la viticoltura, che fa fatturare milioni e milioni di euro annui alle aziende, in particolar modo quelle più grosse e conosciute, che sono poi quelle per cui principalmente lavoriamo.

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Il lavoro si svolge a coppie, io sono con l’unico altro italiano della squadra, oltre naturalmente al capo.
Le altre coppie sono sempre formate in base alle nazionalità, un filare a coppia, il capo naturalmente per la maggior parte del tempo controlla che il terreno sia zappato correttamente e sposta il camioncino con su gli zaini e l’acqua.

Dopo aver acquisito un pò di confidenza il signore che lavora con me inizia a proferire qualche parola, soprattutto lamentele per le condizioni di lavoro, ma tutte fondamentalmente parole al vento.

E’ nei giorni seguenti, quando veniamo affiancati da Hussein, pakistano emigrato in Italia con la famiglia anni prima, che veniamo a sapere che agli stranieri, che a dirla tutta si fanno un gran culo, viene negata ogni possibilità di aumento del salario. Se infatti per gli italiani dopo un paio di mesi di prova si passa da un 5 €/h a 7 €/h, agli stranieri tutto ciò viene negato e loro con grandissima umiltà, pur essendone coscienti, accettano tutto questo, almeno fino a quando non trovano di meglio.

Finita la nostra breve esperienza possiamo dire di essere giunti ad una conclusione abbastanza chiara: il caporalato non esiste solo nel Sud Italia o nelle regioni “più povere”. Parliamo infatti di una zona molto virtuosa economicamente come la lombarda Franciacorta, la differenza sostanziale è che da noi è pagato pochi euro in più (2€/h) ed è eventualmente consentito anche a livello legale, senza nessuna contrapposizione da parte di alcun sindacato.
Per quanto riguarda le altre carenze, tipo assenza del DPI, semplicemente non esiste un’eventuale volontà di controllo e tutela dei lavoratori e soprattutto di intaccare interessi economici multimilionari.

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