La morte di Tebaldo Brusato e la furia dei bresciani durante l’assedio del 1311

Il 19 giugno 1311 Tebaldo Brusato raggiunge a cavallo le alture dei Ronchi attorno a Brescia, accompagnato da un piccolo seguito di fidati nobili, con l’obiettivo di ispezionare la solidità di alcune fortificazioni. Da quella posizione doveva apparire una Brescia molto diversa dall’attuale: a est, ecco l’ex città romana, tutta un intrico di vicoli, vecchie chiese e vecchie case ammassate ai piedi del colle Cidneo, sulla cui cima c’è un fortilizio più pulcino che Falcone d’Italia. A ovest di questo ammasso di casupole costruito sulle rovine della Brixia romana, ecco invece la nuova espansione medievale, gravitante attorno al Broletto, all’antico complesso episcopale e alle cattedrali: lo splendido Duomo vecchio, da poco ultimato, e un’antica basilica paleocristiana al posto del Duomo nuovo. Oltre, ecco i borghi commerciali e produttivi di San Faustino e di San Giovanni, i due progenitori del quartiere Carmine, il primo snodato attorno al Garza, il secondo brulicante all’ombra della trafficata porta per Milano. Interposta tra le case e le mura, ecco una fascia di campi coltivati gestita da una costellazione di monasteri, perlopiù piccoli e di remotissima fondazione, l’unica campagna bresciana al sicuro dal nemico.

Il nemico è proprio là, fuori dalle mura, quel 19 giugno 1311. Da un mese esatto, nientedimeno che l’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico VII in persona, più noto come Arrigo, ha cinto d’assedio Brescia con un folto esercito stanziato tra le mura e il fiume Mella, fermamente intenzionato a prendere la città e sedarne i rivoltosi. Oltre alle cronache locali, questi eventi ci sono narrati anche dallo straordinario Codex Balduini, un codice miniato dei primi del Trecento che descrive dettagliatamente la campagna d’Italia dell’Imperatore Enrico VII. Composto da Balduino di Lussemburgo, fratello dell’Imperatore, è oggi conservato all’archivio di Coblenza e, delle trentasette pergamene illustrate, ben quattro sono dedicate ai fatti bresciani.

Sono tempi difficili per i liberi comuni dell’Italia settentrionale: da circa duecento anni, l’Impero sta tentando in tutti i modi di renderli nuovamente una provincia germanica d’oltralpe, dopo che gli stessi se ne erano affrancati per autocostituirsi come realtà municipali autonome. Già Federico I detto il Barbarossa aveva tentato di raddrizzare la schiena agli italiani, subendo tuttavia la leggendaria sconfitta alla Battaglia di Legnano nel 1176 contro la Lega Lombarda, l’alleanza che aveva riunito contro il nemico tutti i comuni padani decisi a troncare le mire espansionistiche dei germanici. Nel 1237 era stato invece il turno di Federico II di Svevia, più che mai intenzionato a confermare il potere tedesco sul nord Italia. Vincitore, in quell’anno, sulla Lega Lombarda alla Battaglia di Cortenuova, il suo successo era tuttavia svanito nel nulla, fagocitato dalle nuove, rinfocolate resistenze e da una pesante scomunica papale la cui gestione aveva assorbito ogni altro suo impegno fino alla morte, avvenuta nel 1250.

Purtroppo, negli anni a venire l’area padana era precipitata in una battaglia aperta tra guelfi e ghibellini, i due partiti contrapposti protagonisti della scena politica medievale europea. Nati rispettivamente come filopapali e filoimperiali, ossia i guelfi sfavorevoli e i ghibellini accondiscendenti alla presenza imperiale in Italia, i due termini avevano presto assunto molteplici implicazioni, come antitedeschi e filotedeschi, fino addirittura a cattolici ed eretici. Contrapposizioni, lotte fratricide, tentativi di prevaricazione, cambi di bandiera più o meno repentini, il tutto in mano a poche, ricche famiglie che controllavano la propria città e ne stabilivano l’orientamento politico.

Siamo nella seconda metà del Duecento: annientato dall’anarchia politica, il libero Comune perde di significato, il consiglio di cittadini sapienti cede il passo alla Signoria dominata dalla dinastia di una sola, potente famiglia, la cui superiore autorità è l’unico elemento in grado di mettere d’accordo, con la diplomazia o con la forza, fazioni altrimenti contrapposte in maniera insanabile.

Il comune di Brescia non è certo estraneo a queste tumultuose dinamiche: in quegli anni, le fazioni si alternano al potere, cacciando nemici e richiamando amici fino al successivo cambio di bandiera, cui consegue l’inversione delle famiglie cacciate e rimpatriate, tutto un rincorrersi di regolamenti di conti il cui unico esito è esacerbare un conflitto già gravissimo. Alla fine del secolo, le più potenti famiglie bresciane decidono di mettere fine al fastidioso girotondo: nel 1298 il vescovo Berardo Maggi, ghibellino ossia filoimperiale, si autoproclama primo Signore di Brescia con il benestare delle famiglie accolite, guelfe e ghibelline, finalmente riappacificate. Tra le famiglie guelfe sostenitrici di Berardo Maggi ci sono i Brusati, dei quali Tebaldo, navigato ed esperto uomo politico, è il principale esponente. Ma i disordini sono lungi dal concludersi: nel 1305 Berardo Maggi caccia Tebaldo Brusato e famiglia, che pur lo avevano sostenuto nella sua ascesa al potere, sospettando che questi sia intenzionato a succedergli al governo della neonata Signoria bresciana. Berardo Maggi muore nel 1308 e il potere passa al fratello Matteo, che all’inizio del 1311 viene scalzato proprio da Tebaldo Brusato di ritorno in patria, subito autoproclamatosi terzo Signore di Brescia con il consenso degli altri nobili. Un Signore guelfo, stavolta, dunque antitedesco.

Nel frattempo Enrico VII, da poco incoronato ad Aquisgrana come Imperatore del Sacro Romano Impero, nel 1310 scende in Italia con almeno due intenzioni. La prima, dirigersi a Roma per ottenere l’incoronazione papale; la seconda, perseguire gli interessi dei predecessori e tentare di riconfermare l’autorità imperiale sul nord Italia, presentandosi come pacificatore super partes tra guelfi e ghibellini al prezzo di gran parte della libertà comunale delle città che lo avrebbero accolto. L’occasione di mettere fine alle dilanianti guerre tra famiglie contrapposte è talmente buona che numerosissime città italiane sono liete di aprire le porte a Enrico VII, e addirittura il sommo poeta Dante Alighieri mette per iscritto, a più riprese, tutta la sua profonda speranza che la figura del nuovo Imperatore possa far cessare l’anarchia politica dilagante nella Penisola.

Le città che resistono alle imposizioni imperiali vengono accerchiate, prese e umiliate: ai primi del 1311 Enrico VII è a Cremona, dove i signori Dalla Torre hanno rifiutato di accogliere la bandiera germanica. Cremona è presa, i Dalla Torre neutralizzati, le mura della città rase al suolo. La contemporanea instaurazione della tumultuosa signoria guelfa di Brescia, guidata da Tebaldo Brusato dopo la cacciata dei Maggi, è per Enrico un affronto troppo grande alla sua autorità e ai suoi piani per il dominio del nord Italia. Il 19 maggio 1311, lasciata Cremona, ha così inizio l’assedio di Brescia, al fine di espugnare la ribelle roccaforte guelfa e assoggettarla all’aquila imperiale tedesca.

Roberto Panchieri
(Il Primato Nazionale)
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