Il primo mese da volontario contro il coronavirus

È ancora vivida in me la sensazione che provai quella domenica di fine febbraio, quando il governatore della regione decretò la chiusura delle scuole a decorrere dalla mattina successiva…non direi paura, ma un velato quanto persistente senso di inquietudine.

A dire il vero, ad oggi, mi riesce difficile prendere consapevolezza del fatto che siano passati meno di due mesi da quel giorno, e di come la mia vita sia profondamente mutata in questo breve lasso di tempo.
Strano paese l’Italia, il paese in cui quella che doveva essere una semplice influenza si sia dimostrata in meno di un mese in grado di paralizzare la nazione intera, ma anche il luogo capace, a fronte dell’emergenza, di esternare quel senso di unità nazionale ed attaccamento alla bandiera che in fondo, sappiamo di possedere.

Negli ultimi giorni, spesso mi accade di assistere a vere e proprie lezioni di lingua italiana e semantica, durante le quali sedicenti intellettuali si arrogano l’onore e l’onere di catechizzare il popolo in merito a quanto questa non sia una guerra ma un’emergenza, su come noi non siamo soldati ma cittadini e su quanto non c’entri tanto la Patria quanto la solidarietà.

Emergenza sanitaria, non fa una piega, assolutamente, siamo cittadini.

Però, guardando addietro, non posso esimermi in questa sede dall’esternare un paio di seppur minimi e tralasciabili elementi, aventi non poco a che fare con il fatto che, ad oggi, io viva a cinquanta chilometri da casa mia e non veda i miei genitori da un mese e mezzo.

Alla fine di febbraio, come tutti, ero ben contento di condividere la cena con mia madre e mio padre, e, nel mio caso specifico, di godere della consapevolezza di come anni di sacrifici stessero finalmente per concretizzarsi nell’agognata abilitazione alla professione.
Alla fine di febbraio, mi godevo la recente assunzione a tempo indeterminato come operatore per i servizi di tutela minorile, scuola necessaria e propedeutica alla mia professione futura.

Alla fine di febbraio, ero ben felice di avere l’opportunità di collaborare con un importante studio di psicologia e psicoterapia, e di godermi appieno relative soddisfazioni e guadagni.

Alla fine di febbraio, potevo godere della compagnia di centinaia tra amici e conoscenti, condividere idee, storie, esperienze di vita ed emozioni, parte direi necessaria di una vita degna di essere vissuta.

Alla fine di febbraio, avevo una vita diversa, molto diversa, e così come me anche milioni di altri cittadini, non soldati.

Però, però, però… non mi torna come tante, troppe situazioni e configurazioni sociali siano quasi sovrapponibili a quelle di cui i nostri nonni e bisnonni ci han lasciato consapevolezza, vissute durante le due guerre mondiali.

Milioni di italiani chiusi nelle loro case, leggi speciali a limitazione delle libertà individuali, ospedali da campo, militari nelle strade, reparti chiusi, malati divisi dai parenti, effetti personali lasciati agli operatori sanitari, con la preghiera di salutare il caro afflitto o con la richiesta di informazioni…di qualunque informazione possa donare il seppur minimo appiglio o spiraglio di speranza. E poi ancora bare, decine di migliaia di bare, chiese piene di bare, obitori che scoppiano e, ultimi per ordine ma primi per importanza, uomini e donne che muoiono, soli, sempre soli, circondati da persone bardate ed irriconoscibili, eco assordante di intere generazioni scomparse.

Non è forse guerra questa?

Meno di due mesi fa il mio pensiero fisso era l’esame di stato, ora il mio pensiero fisso è essere pronto, essere pronto al turno che mi aspetta ed essere preparato a portarlo a termine, alla missione, conscio del rischio che ciò inevitabilmente implica.

Meno di due mesi fa ho deciso di riporre biro ed evidenziatori per indossare nuovamente quella tuta arancione, e mettermi a tempo indeterminato a disposizione della protezione civile. Questo per me ha implicato parecchi cambiamenti: innanzitutto la consapevolezza che probabilmente perderò la sessione utile dell’esame di stato, e che di conseguenza per me le soddisfazioni lavorative dovranno aspettare ancora un po’; d’altronde, mi par di ricordare che qualcuno un giorno disse: “signor comandante, io me ne frego, si fa quel che s’ha da fare per la patria”.

A centodue anni da quel “me ne frego” e a più di un mese dallo stravolgimento della nostra quotidianità, la vita per me inizia ad assumere una parvenza di regolarità nella sua nuova configurazione; vivo con una persona che stimo e che, con abnegazione e coraggio, combatte lo stesso nemico nelle terapie intensive venete; vivo bardato di una scomoda e pesante tuta da astronauta, vivo di turni di otto o nove ore, in un luogo approntato appositamente per l’accoglienza delle persone positive, un eterogeneo insieme di tensostrutture e cemento ricavato nei pressi della vecchia lavanderia degli Spedali Civili di Brescia.

Qui i pazienti arrivano, per lo più accompagnati, e vengono separati dai loro parenti, per essere poi presi in carico e iniziare quell’incerto e rischioso viaggio nella malattia, ma, fortunatamente, spesso corredato dalla completa guarigione. L’ambiente è serio, disciplinato, ben coordinato. Spesso si stempera, si sdrammatizza, e, ogni tanto, si riesce anche a far ridere un paziente.

Per lo più, però, si respira sofferenza e solitudine, spesso sconforto e la tentazione di mollare, ma anche molto affetto e grande forza d’animo di medici, infermieri e soccorritori, che vivono questa emergenza nella fermezza della vocazione e nella consapevolezza che si fa ciò che va fatto.

Forse è proprio questo il punto, non so se io abbia mai avuto voglia di trovarmi lì in mezzo, ma sono certo, in quella domenica di fine febbraio, di aver maturato la consapevolezza del fatto che non sarei potuto essere in nessun altro luogo.

D’altronde, signor comandante, io me ne frego, si fa quel che s’ha da fare per la patria.

 

Al sig. Ermanno, un paziente unico, come tutti.

Valerio.

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