SUL FASCISMO HA RAGIONE LEALI

(Francesco Carlesi -Stato e Partecipazione)
La polemica riguardante gli interventi in campo sociale e previdenziale del fascismo non accenna a placarsi dopo 80 anni, rimanendo preda di una superficiale battaglia politica. L’esempio più recente è firmato dal bresciano Fausto Leali, partecipante al Grande Fratello vip, che gli è costata l’eliminazione dal reality show.
Nonostante i lavori di storici come De Felice, Gregor, Mosse e Parlato, il mondo progressista vorrebbe ridurre il ventennio al “male assoluto” e il “fascismo” a parola tabù, chiudendo la porta a qualsiasi tipo di riflessione scientifica e distorcendo palesemente il significato delle parole, secondo uno schema denunciato da ultimo da Emilio Gentile in “Chi è fascista”.
Si piega la storia, senza approfondimento, ai propri interessi momentanei: «ogni storia è storia contemporanea», ammoniva d’altronde Croce.
Quale fu la profondità dell’azione del regime dunque? Andiamo con ordine. Dopo l’unificazione, i governi liberali cominciarono una lenta azione di riforma sul piano delle sviluppo industriale e degli interventi sociali, con alterne fortune. La Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai del 1898 fu un passaggio importante sul piano previdenziale, ma si era ancora lontani da uno Stato sociale di largo respiro. Quella sopra riportata era assicurazione solamente volontaria, integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo, anch’esso libero, degli imprenditori, che divenne obbligatoria solo nel 1919 (approvata dal parlamento nel 1923), cioè dopo ben 58 anni di governi liberali e democratici.
Come si può evincere dall’approvazione sopra richiamata, il fascismo, pur nei primi anni di impostazione economica “liberale”, cominciò sin da subito una precisa azione sui temi sociali. Già nel primo anno di governo si ebbe ad esempio la Riforma Gentile della Scuola, su cui si è retto il sistema italiano per decenni e leggi per la tutela del lavoro di donne e fanciulli (Regio Decreto n° 653 26/04/1923) e di maternità e infanzia (Regio Decreto n° 2277 10/12/1923). Lasciamo poi la parola al professor Parlato: «Nel marzo 1923 venne sancita la giornata massima lavorativa di otto ore (era il cavallo di battaglia dei socialisti prima della guerra) e nel dicembre successivo viene dichiarata obbligatoria l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia (quella vantata del 1919, ma che solo il fascismo convertì in legge ndr), primo passo per la creazione di una struttura pensionistica, prima inesistente in questa forma, perfezionata nel 1927 ed estesa agli eredi.
La Carta del Lavoro sviluppa un’ideologia previdenzialistica e i campi d’intervento sono: perfezionamento ed estensione dell’assicurazione infortuni (realizzati già con decreto del dicembre 1926), delle malattie professionali (assicurazione contro la tubercolosi nel 1927, mutue obbligatorie nel maggio 1929), della disoccupazione involontaria. Fu poi istituito il contratto collettivo di lavoro e vengono introdotti gli assegni familiari.
Nel 1935 viene introdotta la settimana lavorativa di 40 ore allo scopo di riassorbire la disoccupazione; fra il 1934 e il 1938 viene allargata a tutti i settori produttivi l’assicurazione obbligatoria di malattia; l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, prima della guerra molto ristretta, fu estesa a tutti i settori con la creazione dell’INFAIL (oggi INAIL), che sostituì la vecchia Cassa nazionale infortuni. Si definisce l’assicurazione contro le malattie professionali (prima sconosciute) e questa materia viene affidata all’INFPS (oggi INPS) che si potenzia diventando il vero motore dello Stato sociale. Sempre all’INFPS viene affidato il settore sempre più vasto dell’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia, che a metà degli anni Trenta ha coperto tutti i settori produttivi e professionali.
Teniamo presente che, oltre ai provvedimenti qui ricordati, nascono anche l’Ente Opere Assistenziali del PNF e il Patronato Nazionale di Assistenza Sociale, organo legato al sindacato fascista, che si occupa di sensibilizzare nel mondo del lavoro la cultura previdenziale».
E ancora: «nel 1941 viene introdotta la Cassa integrazione guadagni (che il sito dell’INPS dichiara essere stata creata fra il 1968 e il 1969). Ricordiamo anche le ferie pagate e l’invio di bambini nelle colonie estive e montane, nonché i treni popolari a supporto di chi andava in ferie. Furono provvedimenti adottati nella prima metà degli anni Trenta per permettere le ferie a chi non si era mai mosso di casa.
Prima della Grande guerra in ferie andavano solo i ricchi. E tutto questo fu utile per lo sviluppo dell’ENIT (Ente Nazionale per il Turismo)». Senza menzionare i vasti piani di edilizia popolare o l’Onmi e la sua opera di assistenza a gestanti, madri e bambini.
Le conclusioni, condivise anche da un esperto sul tema come il professor Gregor, sono nette: «Occorre ricordare che il diritto del lavoro in Italia nasce negli anni Venti e diventa disciplina universitaria. Per inciso, questo sistema viene mantenuto nel dopoguerra senza modifiche sostanziali, finché in Italia è esistito uno Stato sociale» (Storia in Rete, n. 150, aprile 2018).
Rispetto agli interventi spesso occasionali dei precedenti governi, un attento e coordinato studio (si pensi alla nascita di istituti scientifici come l’Istat) condusse alla prima codificazione di una serie di provvedimenti legislativi finalizzati a tutelare nel concreto la posizione dei lavoratori e la loro dignità nelle aziende. In questo senso l’Inail «rappresentò un passo rilevante verso l’edificazione di un sistema di garanzie sociali basato, da un lato, sulla sottrazione di significativi flussi di capitale e
quote di profitto alla compagnie assicurative private e, dall’altro, sul rafforzamento del ruolo delle istituzioni pubbliche», come ha scritto lo storico Alessio Gagliardi ne Il corporativismo fascista (Laterza, 2010). Siamo di fronte a concezioni sociali che permearono il nostro Codice Civile del ’42, segnando indelebilmente sia la cultura giuridica di molti protagonisti del dopoguerra quanto diversi articoli della Costituzione, insieme a enti quale l’Agip, da cui nel dopoguerra sorse l’Eni di Mattei.
Anche il sindacato fascista, che aveva schiacciato gli avversari, seppe comunque creare delle scuole di tecnici preparati di cui si servì ampiamente anche la Cgil sin dalla fine degli anni ‘40. Senza tutto questo, è difficile immaginare lo sviluppo italiano nel dopoguerra.
Per completezza, bisogna dire che durante il fascismo le dinamiche occupazionali e salariali conobbero momenti altalenanti e spesso difficili per i lavoratori, anche se dati Istat dicono che i consumi degli italiani nel ’35 erano gli stessi del ’55, agli albori del boom economico reso possibile anche dalla struttura economica edificata dal regime.
In una situazione segnata irrimediabilmente dalla crisi internazionale del ’29, il fascismo risanò i conti pubblici nell’immediato dopoguerra e impostò le basi un vero e proprio modello sociale originale negli anni Trenta.
La legge bancaria del ’36 impedì le speculazioni finanziarie che oggi sono tornate di moda, l’Iri («un colosso onesto, efficiente, competente» che all’epoca allevò una classe manageriale preparatissima) divenne il volano dell’industrializzazione italiana, i piani autarchici favorirono l’innovazione, il già citato Codice civile pose le basi la collaborazione e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e «i lavori pubblici avviati avrebbero rappresentato comunque un’eredità fondamentale per il futuro non solo immediato ma anche per i decenni seguenti» come ha scritto Augusto Grandi in Eroi e Cialtroni (Politeia, 2011).
In questo contesto, si avviarono imponenti opere di bonifica parallelamente alla fondazione di borghi e città come mai nella storia unitaria. Sul tema, basta leggere Fascio e Martello di Pennacchi o Dal fascismo alla Dc di Zaganella per capire i contorni quasi epocali della questione. Parlato ha ricordato che «il regime bonifica territori e costruisce centri abitati (le Città di fondazione) fino al suo crepuscolo. Giuseppe Tassinari, ministro dell’Agricoltura, lancia l’assalto al latifondo pugliese nel 1938-1940 e quindi quello contro il latifondo siciliano nel 1940-1943.
Nel feudo dei Nelson, nella ducea di Bronte, il 2 gennaio 1940 il regime decide l’esproprio e la costruzione di otto borghi ai quali se ne aggiungono altri sei: uno di questi è il borgo Caracciolo, così chiamato per ricordare l’ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della rivoluzione giacobina a Napoli del 1799 e poi impiccato da Orazio Nelson. Non appena arrivarono gli alleati in Sicilia, il borgo fu distrutto e la ducea tornò in mani britanniche».
Senza negare errori ed eccessi di quei tempi lontani, è così difficile storicizzare tutto questo senza imporre bavagli?

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